I tre elementi presenti nel sottotitolo dell’opera di Rachel Cusk sono il concentrato dei temi che intende affrontare: “Sulla vita, l’arte e la letteratura”.
Questo commento/analisi/riflessione non può (per definizione) e non vuole (per scelta) essere super partes: anche se mi sforzassi a livello razionale, il subconscio tenterebbe di emergere usando a sproposito una delle tante parole che si leggono sulla quarta di copertina: analitico, formidabile, coraggioso, colto, tagliente, scintillante.
Per “Resoconto“, letto qualche mese fa, valgono gli stessi aggettivi, ma vi è una distinzione essenziale: leggendolo non sapevo cosa aspettarmi, era la prima volta che prendevo in mano un libro di Cusk, mentre questa volta le aspettative partivano proprio dall’ultima pagina di quel romanzo.
In quel caso mi ritrovai su un aereo, ricordo di aver pensato a Norwegian Wood di Murakami, il sottofondo dei Beatles, un pozzo. Strana cosa la memoria.
Questa volta invece mi sono ritrovato sul ciglio di una strada di campagna a guardare delle auto procedere a bassa velocità.
Sfoglio le pagine, alla ricerca di quelle pietre preziose che ho evidenziato, ecco la prima, pagina 10: “il punto di vista corrode la verità“.
Qualche giorno fa ho visto “Juror #2” in sala, e anche questa pellicola parla di verità, di punti di vista, di libertà, come Cusk fa a pagina 13: “sembra che ci si rattristi non tanto per il declino di un vecchio mondo di libertà, quanto per l’esistenza di agi e comodità a cui si è incapaci di resistere, e che in cuor suo nessuno vuole abolire”.
Non sempre la giustizia è verità, e la verità è giustizia.
Il libro (come il film) scava dentro il lettore, parla di noi, illumina i pensieri che teniamo nascosti al buio, e lo costringe a ripensare a quelle occasioni in cui ha dato ascolto alla sua giustizia, quella personale e non quella collettiva, universale, la vera giustizia.
Spuntano i primi interrogativi sul mondo dei genitori, sono a pagina 29: “Mi chiedo se le coppie silenziose abbiano speso due terzi del loro tempo parlando dei figli. Mi chiedo se il loro silenzio sia dovuto alla difficoltà di tornare alla realtà quando il racconto è finito”.
Io Rachel ti chiedo: la vita di coppia è davvero questo? Il semplice esistere, organizzare, rispondere agli imprevisti, architettare dei piani per i figli, o può essere anche altro? Perché è quello che più mi spaventa. E’ davvero il tuo punto di vista o è una tua vendetta personale, un rimprovero per tutte quelle volte in cui i tuoi genitori ti hanno mandato a Coventry?
Si parla anche di maleducazione, vista come barriera che separa i pensieri dai fatti: le azioni soppiantano le parole, rendono irrilevante il linguaggio; una volta valicato il confine, non c’è più tempo per parlare.
Quel confine viene valicato non solo quando si passa alla violenza fisica, ma anche tutte quelle volte in cui alziamo il tono della voce, urliamo, cerchiamo di prevaricare.
La maleducazione si insidia profondamente nella vita quotidiana ogni volta in cui raccontiamo menzogne, rifiutiamo di ascoltare e di vedere la realtà, quando semplifichiamo, quando rifiutiamo di ammettere di essere nel torto, quando trasformiamo l’oppositore in un nemico. (Pag. 54-55)
A pagina 61 compare Dio: pochi di noi hanno sperimentato guerra, carestie, discriminazione, per cui cerchiamo qualcosa con cui poterci orientare.
Non ho mai creduto a chi dice di non credere in nulla. C’è chi si butta nelle mani della religione, chi si dedica allo sport, chi rincorre l’irraggiungibile ideale di bellezza, chi disquisisce su tematiche profonde, chi fa dell’ignoranza il proprio motto di vita. Ognuno sceglie il proprio Dio, semplicemente non se ne accorge.
A pagina 70 il punto di vista si ribalta, la figlia diventa madre: “Quante volte mi sono ritrovata a sostenere bizzarre discussioni punitive allo scopo di ribadire leggi domestiche nelle quali non credevo nemmeno io?”.
“Un libro non è un esempio di scrittura femminile solo perché è scritto da una donna. Può diventare scrittura femminile quando non avrebbe potuto essere scritto da un uomo.” (Pag. 144). Non so se questo sia un libro che anche un uomo avrebbe potuto scrivere. Probabilmente no.
A pagina 154 inizia un capitolo intitolato “Come arrivare lì?”. Nonostante mi sia stato regalato, penso questo capitolo, da solo, valga dieci volte il prezzo di euro 18.50 che leggo sul retro.
L’aspirante scrittore non può non ritrovare gli interrogativi che si è posto almeno una volta. Domande sull’affidabilità dei corsi di scrittura creativa, la ricerca dell’ingrediente segreto, dovresti parlare di questo, dovresti ambientare la storia in quel posto, la pubblicabilità è garanzia di qualità?
In sole dieci pagine, oltre a tentare di rispondere, propone alcune analisi dettagliate di stampo antropologico fatte sul corpo degli scrittori. Come il bambino ripete e perfeziona la storia in base alle risate e all’allarmismo degli adulti, lo scrittore enfatizza e tralascia parti. Sembra quasi che i narratori siano in definitiva delle persone che hanno bisogno di essere ascoltate, che trovano nella scrittura la vera ed unica espressione di sé, dei propri valori, della propria sensibilità, del proprio concetto di giustizia e verità, e che i corsi di scrittura siano diventati l’unico luogo in cui potersi rifugiare con i propri simili e fuggire dal mondo di fuori, in declino verso la superficialità e la maleducazione.
A pagina 167 sono caduto, ho sbattuto con il mento sul suolo, i denti rotti e sanguinanti, macchie cremisi sulla ghiaia, il piede continuava a scivolare senza permettermi di tornare in piedi. Inizia a quella pagina “Classici e best seller”, la terza parte, inspiegabilmente ed inutilmente complicata, il cui tempo di lettura è durato nel mio caso quasi la metà del libro intero (o almeno così mi è parso).
Paragono il nervoso a quello di entrare in sala quando il film è già iniziato da un’ora, non si ha familiarità con i personaggi, non si capisce cosa stia succedendo e dove ci si stia dirigendo.
In questo caso mi sorge il dubbio che non sia stato fatto di proposito, per spingermi a leggere i libri di cui parla in modo da capirne l’analisi (fosse questo l’intento, è fallito miseramente). Oppure si presuppone che chiunque li abbia letti, in quanto classici e best seller (fallimento anche in questo caso). Mi sono sentito lo studente lasciato indietro perché più lento dei compagni.
Ho la bocca amara, come se avessi ricevuto un calcio mentre mi stavo godendo un buon pasto, ma dopo aver sputato il sangue mi fosse stata offerta una caramellina.
Quella caramella è “Non lasciarmi”, la penultima opera di cui parla.
Scuote il fondo della mia memoria, vedo i granelli di sabbia che tentano di salire a galla, la fatica per familiarizzare con il nome dell’autore, Kazuo Ishiguro, Kathy, i donatori, la “Galleria”, gli organi, Tommy e fallimenti artistici annessi, lo sport.
Prenderò le forbici, taglierò un paio di capitoli, e ti rileggerò.
Un grazie a chi mi ha regalato il libro. Ti voglio bene.